Nam et fas est et ab hoste doceri - Imparare è sempre lecito anche
dal nemico (Ovidio - Metamorfosi)
Il mondo cambia e delle volte
credo che non sia necessario combattere troppo a lungo, incaponirsi con
battaglie che potrebbero essere perse già in partenza. Delle volte è più facile
e vincente volgere il cambiamento a proprio favore piuttosto che combattere per
tornare ad un prima che forse non si può più restaurare.
Precari. Lo sono stata sino a quando ho deciso di dare le dimissioni. Anzi, quando ho interrotto
anticipatamente il contratto di collaborazione continuativa a progetto, più
noto come co.co.pro. Ecco quello che ero.
Siamo il peggio della società.
Per certi versi è vero. Perchè siamo lo scarto creato da un mondo del lavoro in
crisi, da una classe dirigente fallita che non può che dar vita a scarti. Ma
non siamo noi, individui precari, il peggio. Quel peggio è determinato della
società stessa, sono le modalità ed i contratti, i ricatti con i quali siamo
costretti a stare nel mondo del lavoro, che siamo costretti ad accettare per
pagare un affitto, per sognare una carriera, per esistere. Un ricatto, ecco
cosa è oggi il mondo del lavoro. Il peggio.
A partirei dagli “stage”: offrono
alla società una massa di giovani, speranzosi di entrare nel mondo del lavoro,
ancora inesperti, ma giovani e pieni di energie, novità e speranza. Una forza
da non sottovalutare. Un ottimo inizio, il problema è che non si finisce più,
almeno sino all’età massima, sino al termine ultimo. Un buon modo per
accumulare esperienza in aziende altrimenti precluse, un ottimo modo per tali
aziende di testare le persone ma anche di usufruire di una forza lavoro
gratuita perennemente intercambiabile.
Superata la fase “stage”, il
mondo del lavoro di oggi offre disoccupazione o contratti a progetto ovvero una
marea di precari. Eccoci qua.
Premetto: il contratto a progetto
in sé credo sia un’ottima opportunità. Prendo uno dei miei e copio alcuni
punti:
- il Committente conferisce alla Collaboratrice, che accetta, l’incarico
relativo alla realizzazione del progetto
sopra descritto....
- la Collaboratrice svolgerà la propria attività in assoluta autonomia, al di fuori di ogni obbligo di orario e di
presenza e senza alcun vincolo gerarchico e/o disciplinare da parte del
Committente
- la Collaboratrice si impegna a prestare la collaborazione di cui sopra in via non esclusiva, ma non
concorrenziale, a favore del Committente...
Così descritto, mi sembra un buon
modo per dare la possibilità ai giovani, in un mondo del lavoro statico e
saturo, di muoversi liberamente tra diversi “progetti”, di decidere per chi e
per cosa lavorare in autonomia, senza dover aprire ad esempio una Partita Iva
che comporta molti più vincoli. Questa la teoria.
La pratica, lo dico per
esperienza personale ma non solo, è che spesso i progetti descritti nei
contratti sono fasulli e soprattutto è implicitamente falso tutto il resto. Il
contratto a progetto nella pratica è un modo, da parte del datore di lavoro, di
risparmiare, si pagano meno tasse, contributi ridotti. Ad esempio non ci sono
ferie, non essendoci monte ore di lavoro prestabilito, quindi, logicamente, che
senso avrebbe avere le ferie? Ma nella pratica le ore ci sono eccome, i vincoli
ci sono eccome, il progetto forse è l’unica cosa che spesso non è reale.
Nella pratica il contratto di
collaborazione continuativa a progetto diventa un modo del datore di lavoro di
risparmiare, di legarsi con modalità meno determinanti e decisamente più
economiche ad un lavoratore. Implicitamente però il collaboratore in questione
sa già da quando firma che quello che c’è scritto sul suo nuovo contratto è
carta straccia. Gli accordi saranno altri e saranno verbali.
E allora forse, noi precari,
siamo una massa di imbecilli che firmiamo contratti di cui sappiamo sin
dall’inizio la falsità? In un mondo giusto sarebbe così.
Ma in un mondo in cui non si
trova lavoro, in cui è già terribilmente difficile dopo gli studi, entrare in
un’azienda, in cui è ormai impossibile sognare il posto fisso, le ferie, la
maternità e tutti quei diritti per i quali sono state fatte lotte su lotte, in
un mondo che sembra quasi rifiutarti, avere la possibilità di firmare qualsiasi
cosa, falsità incluse, sembra già un privilegio. E per tale passa.
La disoccupazione e la crisi
economica hanno ovviamente accentuato una condizione già grave di precarietà e
di ricatto. Ma solo nel senso della paura.
Perchè alla fine dei conti è la
paura che ci paralizza. Mi spiego.
Quando non fai altro che leggere,
ascoltare, che non c’è lavoro, che i disoccupati crescono, che c’è la
crisi...quando poi ti rivolgi agli amici, che come te passano da uno stage ad
un contratto a progetto alla disoccupazione di qualche tempo...beh, in questo
caso si realizza la premonizione per cui già solo firmare un contratto, qualsiasi
esso sia, sembra una fortuna.
Oltre ad essere precari siamo
quindi una manica di schiavi ricattabili. Ricattabili perchè abbiamo dei sogni,
perchè speriamo in un mondo migliore, in un mondo meritocratico, in un futuro,
nella possibilità di costruire qualcosa. Ecco ciò che alcuni definiscono
“l’Italia peggiore”.
L’Italia peggiore è formata da
gente che lavora senza diritti e senza tutela, pur di lavorare, da giovani che
non possono aprire bocca per paura di perdere uno stipendio da mille euro al mese,
da giovani che spesso immolano una vita intera al lavoro, dignità compresa,
nella speranza di non perderlo. Da giovani e meno giovani, che non possono
troppo spesso permettersi di denunciare l’illegalità e le ingiustizie perchè
perderebbero un mantenimento mensile o semplicemente una possibilità di
carriera.
In un paese ideale mi piacerebbe
immaginare un controllo migliore sul mondo del lavoro. Un controllo statale che
garantisca l’attuazione lecita dei contratti e non impliciti ricatti. Dirlo a
parole forse è sin troppo semplice.
In questo mondo in cui
l’idealità, in tutti i sensi, sta venendo meno, nel piccolo credo che una vana
speranza possa essere nelle mani dei lavoratori.
La precarietà può essere rigirata
a nostro favore, questo è ciò che intendo con auto-determinazione. Non abbiamo
quasi nulla per le mani, e siamo paralizzati dalla paura. Ma senza paura non
c’è coraggio, come diceva Henry Miller. E allora prendiamoci il coraggio,
mettiamo da parte la paura e rischiamo. Ora o mai più, tra le mani non abbiamo
nulla di valido, un contratto a progetto fasullo non è un’alternativa valida
per guardare al futuro.
Vogliono una massa di precari?
Bene, ma vendiamoci al miglior offerente. Auto-determinazione. Facciamo in modo
da essere noi, senza inutili e rischiose denunce, a far valere la nostra
precarietà, la nostra progettualità. Rigiriamo i ricatti a nostro favore. Non è
semplice, e ci vuole coraggio, paura ammessa. Ma rendere i contratti di
collaborazione effettivamente tali, produrrebbe una nuova forza lavoro, che si
ricicla, che si rinnova che si vende al miglior offerente.
Se i datori di lavoro mirano al
risparmio, noi lavoratori miriamo alla qualità. Vendiamoci,
auto-determiniamoci. Sono molte sicurezze in meno, ma la società in cui viviamo
non può più accettare le sicurezze del passato. Non si può più lottare per
tornare ad un mondo del prima, tutto era troppo diverso. Ed allora crediamoci,
plasmiamoci al nuovo mondo, accettiamone pure la negatività ma rendiamola
positiva e riversiamola a nostro favore.
Se fossimo uniti non ci sarebbero
problemi. Questo vale per tutto, per ogni lotta sulla faccia della terra. Ma
l’unione parte dal singolo, dal singolo individuo che combatte contro i mulini
a vento. Ma che pian piano fa della sua lotta un coinvolgimento, se pur lento
ma necessario.
Capisco benissimo che spesso
denunciare è difficile, troppo compromettente. Ma c’è una rischiosa ma più
morbida alternativa, quella di vendersi, quella di auto-determinarsi. La paura
non può più essere la nostra palla al piede, altrimenti veramente faremo parte
di un’Italia peggiore. Io sono precaria, attualmente disoccupata, ma ho scelto,
auto-determinandomi, di provare a rompere, di andare oltre la paura e
rischiare. Non ho tutela, non ho, aimé, neanche la disoccupazione, ma ho
fiducia. Che le cose possano cambiare, che ci deve pur essere qualcuno che non
accetta, anche solo con un semplice gesto.
Gli ideali pare non portino da
nessuna parte. Anche l’auto-determinazione è un ideale, così come decidere di
cambiare il negativo e l’ostile in positivo, ma se smettiamo di essere
idealisti, romperemo tutto quello che ci rimane di buono. Abbiamo delle energie
e possiamo scegliere: se usarle per accettare la parte peggiore del mondo o se
usarle per rendere il mondo migliore, anche solo un pezzettino.