lunedì 20 febbraio 2012

PAROLE NUOVE E VELOCI ovvero PER UNA SINTESI DEI MESI TRASCORSI E UN FUTURO ALLA RICERCA DI PRECARIETÁ AUTO-DETERMINATA


Passano mesi…passano un sacco di cose, sopra e sotto la pelle. Trascorrono i silenzi, anche se pieni di parole. Il mio silenzio è stato una semplice incapacità di trasporre, dalla mente alla pagina, i miei pensieri. Un po’ per pigrizia dettata dal freddo, un po’ per accumulo di fatti che si son delle volte incespicati l’un sull’altro. Perché tanti, perché forti, perché pieni. Mesi intensi quindi, dentro e fuori, talmente intensi che le miriadi di parole scaturite, sono in qualche modo rimaste bloccate ai limiti dei polpastrelli.
Pian piano ora, con una nuova veste grafica, un anno nuovo, una casa nuova, provo a tirar fuori quelle silenziose riflessioni incubate nel mio corpo in questi mesi senza post. Sarà una rapida – rispetto alla mole di cose da dire - carrellata di tutto. Ogni evento meriterebbe pagine e pagine di approfondimenti. In questa sede solo rapidi accenni.

L’anno passato, più o meno di questi tempi, ero assunta con contratto a progetto, presso un’associazione culturale legata al mondo del libro e dell’editoria. Un lavoro molto interessante, ma ahimè pieno di “difetti” che rendevano difficile la sveglia mattutina. Perché tra le cose a cui ambisco nella vita, che forse a trent’anni ci si aspetta di avere – ma questo è un altro discorso – c’è il desiderio di fare un lavoro che non solo piace ma che lasci la libertà di sentirsi felice, triste, annoiata, indaffarata, per qualcosa che sia anche altro dal lavoro stesso. Il che non significa fare un lavoro per il quale non si prova interesse, ma piuttosto plasmare il lavoro sulle proprie esigenze. 
Sappiamo tutti bene che non c’è, non esiste lavoro ideale, per ogni cosa bisogna forse scendere a qualche compromesso, soprattutto quando quella cosa ci fa portare a casa i soldi per pagare l’affitto e, se siam fortunati, anche per comprarci un vestito o per fare un vacanza. Ma io ho capito di avere dei limiti, di accettazione, di sopportazione o semplicemente, su una ipotetica bilancia di svantaggi e vantaggi ad un certo punto della mia vita lavorativa il bilancino stava scendendo radicalmente tutto da un lato, il lato negativo, nonostante un lavoro interessante, stimolante ed impegnativo, come piace a me. Ma com’è difficile sul lavoro, quando si sta male dover, anzi poter cambiare, scegliere di guardare oltre. Di questi tempi è quasi impossibile. C’è la crisi dicono, e chi te lo fa fare di rinunciare ad un fasullo contratto a progetto che però almeno per altri 6 mesi, in prospettiva, ti farà portare a casa 1000 euro. Altri 6 mesi di affitto, altri 6 mesi di spesa, magari ci scappa quel paio di scarpe che adocchio da un po’…. Ecco quello che mi dicevo. Nel frattempo il famoso bilancino continuava a scendere e a pesare, sull’umore, sulla serenità, perché non si può essere sereni se non soddisfatti e se legati a qualcosa da una necessità principalmente economica e da un pensiero di razionale sopravvivenza. Ma per farla breve, mi si prospetta davanti la possibilità di un viaggio in Palestina, un sogno di lunga data, per partecipare al quale, visti i tempi ed un contratto che non prevede ferie, avrei dovuto rinunciare al lavoro.
Ci ho pensato, eccome se ci ho pensato, ma la possibilità di realizzare un sogno e perdere 6 mesi di contratto a progetto che mi stava soffocando mi è sembrata un segno del destino per spezzare il bilancino e dire basta. Incoscienza tanta. Le voci della coscienza invece sono state quelle miriadi di persone che mi guardavano con le facce preoccupate e titubanti perché non sapevano più chi fossi, chi era quella persona che stava lasciando un posto di lavoro.
Io mi sono detta che in qualche modo ce l’avrei fatta. Punto e basta.
Il destino poi mi ha aiutata e ancora prima di partire ho avuto una nuova opportunità lavorativa, non un lavoro qualsiasi, ma un lavoro bello che mi ha aperto mille strade e possibilità. Mi ritengo in questo molto fortunata. Al di là della fortuna mi piace anche pensare che delle volte bisogna crederci, che è possibile farcela e cambiare, con la crisi, con il mondo che non gira affatto bene, si può, anzi ci si deve credere comunque. Un pò di incoscienza ogni tanto non guasta, quanto meno all'umore.
Andando avanti e licenziatami sono quindi partita per la Palestina. Mi piacerebbe soffermarmi su questo ma spero presto di far arrivare dei post in merito. Work in progress.
Comunque un viaggio di quelli che lasciano il segno. I segni.
Al mio rientro un lavoro a progetto, questa volta un progetto vero, mi apre un mondo nuovo ma soprattutto un nuovo modo di vedere la mia vita lavorativa: il contratto a progetto può essere un valore.
In questi ultimi giorni si discute tanto di giovani, del posto fisso, dell’articolo 18. Non credo più in un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Perché per me, per la mia generazione non è più un contratto adeguato. Il mondo cambia e noi Italiani su questo come su tante altre cose delle volte siamo antichi, e facciamo fatica ad accettare cambiamenti dettati da una società in evoluzione. Credo che un mondo così vario, sempre più globalizzato ed eterogeneo non sia ben rappresentato da un contratto che ti lega così saldamente ad un datore di lavoro. È vero, le banche per fare un mutuo, o per rilasciare una carta di credito (che ahimé io per prima non riesco ad ottenere…) , chiedono la ‘garanzia’ di un contratto a tempo indeterminato. Ma sono le banche che devono cambiare.  È anche vero che i contratti a progetto oggi sono una maledizione. L’ho vissuto sulla mia pelle. Credo che una delle ragioni principali di tale maledizione sia il fatto che il 90% dei contratti a progetto firmati in Italia non sono tali. Sono in realtà un metodo usato dalle aziende per pagare meno tasse, ma il lavoratore viene trattato come fosse assunto con contratto a tempo determinato o indeterminato. Nessuno ne parla di questo. Si parla dell’articolo 18 e non dello sfruttamento e del ricatto che migliaia di giovani e meno giovani subiscono sotto il peso di contratti che non danno alcuna tutela e alcun vantaggio se non al datore che li usa – senza alcun controllo – come arma impropria. Ed in un periodo in cui è così difficile lavorare come si fa ad opporsi, come si fa a dir di no. Quanto apprezzerei un governo che analizzasse o indagasse il rapporto tra le condizioni contrattuali cartacee e quelle effettive, il rapporto tra il dire ed il fare, tra una firma e la pratica del quotidiano. Secondo me da qua bisognerebbe cominciare per riformare il mondo del lavoro.
Il contratto a progetto se rispettato – in tutti i sensi, non solo dai datori di lavoro ma anche dalle banche! – potrebbe diventare un punto di forza in un mondo del lavoro dinamico. Permette di seguire un progetto senza una determinazione di ore, permette di seguire anche più progetti, un po’ come fare il libero professionista senza i costi di una partita IVA. E’ vero non ci sono ferie, tredicesime, quattordicesime, ma se guardiamo i tagli, se guardiamo quanto gli impiegati della pubblica amministrazione stanno perdendo con questa crisi, crediamo davvero che un contratto a tempo possa essere tutela di qualcosa? Io non lo credo più. Credo invece che dobbiamo cominciare ad autodeterminarci e non ad essere determinati da contratti che sono solo forme di ricatto. Certo, per rivalutare un contratto a progetto bisogna cambiare tanto, nella società, nelle mentalità, di quest’Italia che delle volte fatico a capire e a seguire, perché mi sembra vecchia, svogliata, stanca, ma con poca voglia di cambiare e con tanta voglia – sembra – di tornare indietro. Io invece di voglia di cambiare ne ho, preferisco guardare avanti alle incognite piuttosto che cercare di tornare indietro…e forse anche questo, nonostante le paure, mi ha dato la forza di dire basta a ciò che non mi stava più bene. Sono stata fortunata. Ma è questo il momento storico migliore per decidere di cambiare e rischiare….perché non si ha più veramente niente da perdere. Quando si ha tanto da perdere è difficile rischiare, invece in questo momento persino un contratto a tempo indeterminato potrebbe non valere più nulla da un giorno all’altro. È ora che noi giovani, noi tutti, possiam decidere di non accettare, di cambiare, di volere di più. È ora più facile fare scelte difficili. Almeno su di me, un effetto di tutta questa condizione di precarietà in cui i media ci proiettano, è quello di non farmi sentire più legami forti. Tutto cambia, tutto sta cambiando e ogni scelta rischia di cadere un istante dopo averla fatta, quindi l’unica cosa importante da fare ora è pensare al presente, non più al futuro come volevano e facevano i nostri genitori. Il futuro visto da questo presente è troppo incerto, allora perché croggiolarsi col terrore di un domani che non ci è dato conoscere?  Meglio usare le stesse energie per far bene oggi.
Non mi dilungo e proseguo.
Tra i tanti cambiamenti degli ultimi mesi il lavoro mi ha portato a fare un inaspettato viaggio in Turkmenistan che pensavo fosse un paese del Risiko ed invece neanche sul gioco è segnato. Difficile trovare una guida, o un libro che ne parli. Difficile parlarne. Anche su questo work in progress.
Infine tra cambio di lavoro, cambio di vita e nuovi viaggi, chiudo con un cambio di casa dal quale ho definitivamente sviluppato la convinzione che tutti nella vita dovrebbero fare dei traslochi. Cambiare casa è come andare dallo psicologo. Immaginate di rinchiudere tutto ciò che avete in scatole di cartone. Mentre lo fate, ogni singolo oggetto, vi richiamerà alla mente qualche cosa. Immaginate di dover selezionare ed inscatolare alcune delle cose della vostra vita, vestiti, libri, pentole, coperte. In una casa nuova aprite poi gli scatoloni e di nuovo quegli oggetti riemergono a diversa vita, magari con nuovi pensieri, magari no, semplicemente diventano parte di un nuovo mondo che ancora non sapete bene come sarà. Quante riflessioni che fa scaturire un trasloco…è un chi siamo stati, chi siamo, chi saremo, tutto rinchiuso nell’arco di poco tempo e tra le forme dei nostri oggetti quotidiani.  
Qui concludo, anche perché ormai il trasloco è storia recente del lungo viaggio di questo brevi ultimi mesi.
In qualche posto mi son fermata di più, in qualche altro di meno, un po’ per caso un po’ per un dettato delle mani, per ora è abbastanza.

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