Passano
mesi…passano un sacco di cose, sopra e sotto la pelle. Trascorrono i silenzi, anche se pieni di parole. Il
mio silenzio è stato una semplice incapacità di trasporre, dalla mente alla
pagina, i miei pensieri. Un po’ per pigrizia dettata dal freddo, un po’ per
accumulo di fatti che si son delle volte incespicati l’un sull’altro. Perché
tanti, perché forti, perché pieni. Mesi
intensi quindi, dentro e fuori, talmente intensi che le miriadi di parole
scaturite, sono in qualche modo rimaste bloccate ai limiti dei polpastrelli.
Pian
piano ora, con una nuova veste grafica, un anno nuovo, una casa nuova, provo a
tirar fuori quelle silenziose riflessioni incubate nel mio corpo in questi mesi
senza post. Sarà una rapida – rispetto alla mole di cose da dire - carrellata
di tutto. Ogni evento meriterebbe pagine e pagine di approfondimenti. In questa
sede solo rapidi accenni.
L’anno
passato, più o meno di questi tempi, ero assunta con contratto a progetto,
presso un’associazione culturale legata al mondo del libro e dell’editoria. Un
lavoro molto interessante, ma ahimè pieno di “difetti” che rendevano difficile la sveglia mattutina. Perché tra le cose a cui ambisco nella vita, che forse
a trent’anni ci si aspetta di avere – ma questo è un altro discorso – c’è il
desiderio di fare un lavoro che non solo piace ma che lasci la libertà di
sentirsi felice, triste, annoiata, indaffarata, per qualcosa che sia anche
altro dal lavoro stesso. Il che non significa fare un lavoro per il quale non
si prova interesse, ma piuttosto plasmare il lavoro sulle proprie esigenze.
Sappiamo tutti bene che non c’è,
non esiste lavoro ideale, per ogni cosa bisogna forse scendere a qualche
compromesso, soprattutto quando quella cosa ci fa portare a casa i soldi per
pagare l’affitto e, se siam fortunati, anche per comprarci un vestito o per
fare un vacanza. Ma io ho capito di avere dei limiti, di accettazione, di
sopportazione o semplicemente, su una ipotetica bilancia di svantaggi e
vantaggi ad un certo punto della mia vita lavorativa il bilancino stava
scendendo radicalmente tutto da un lato, il lato negativo, nonostante un lavoro
interessante, stimolante ed impegnativo, come piace a me. Ma com’è difficile
sul lavoro, quando si sta male dover, anzi poter cambiare, scegliere di guardare
oltre. Di questi tempi è quasi impossibile. C’è la crisi dicono, e chi te lo fa
fare di rinunciare ad un fasullo contratto a progetto che però almeno per altri
6 mesi, in prospettiva, ti farà portare a casa 1000 euro. Altri 6 mesi di
affitto, altri 6 mesi di spesa, magari ci scappa quel paio di scarpe che
adocchio da un po’…. Ecco quello che mi dicevo. Nel frattempo il famoso
bilancino continuava a scendere e a pesare, sull’umore, sulla serenità, perché
non si può essere sereni se non soddisfatti e se legati a qualcosa da una
necessità principalmente economica e da un pensiero di razionale sopravvivenza.
Ma per farla breve, mi si prospetta davanti la possibilità di un viaggio in
Palestina, un sogno di lunga data, per partecipare al quale, visti i tempi ed
un contratto che non prevede ferie, avrei dovuto rinunciare al lavoro.
Ci
ho pensato, eccome se ci ho pensato, ma la possibilità di realizzare un sogno e perdere 6 mesi di contratto a progetto che mi stava soffocando mi è
sembrata un segno del destino per spezzare il bilancino e dire basta.
Incoscienza tanta. Le voci della coscienza invece sono state quelle miriadi di
persone che mi guardavano con le facce preoccupate e titubanti perché non
sapevano più chi fossi, chi era quella persona che stava lasciando un posto di
lavoro.
Io
mi sono detta che in qualche modo ce l’avrei fatta. Punto e basta.
Il
destino poi mi ha aiutata e ancora prima di partire ho avuto una nuova
opportunità lavorativa, non un lavoro qualsiasi, ma un lavoro bello che mi ha
aperto mille strade e possibilità. Mi ritengo in questo molto fortunata. Al di
là della fortuna mi piace anche pensare che delle volte bisogna crederci, che è
possibile farcela e cambiare, con la crisi, con il mondo che non gira affatto
bene, si può, anzi ci si deve credere comunque. Un pò di incoscienza ogni tanto non guasta, quanto meno all'umore.
Andando
avanti e licenziatami sono quindi partita per la Palestina. Mi piacerebbe
soffermarmi su questo ma spero presto di far arrivare dei post in merito. Work
in progress.
Comunque
un viaggio di quelli che lasciano il segno. I segni.
Al
mio rientro un lavoro a progetto, questa volta un progetto vero, mi apre
un mondo nuovo ma soprattutto un nuovo modo di vedere la mia vita lavorativa: il contratto a progetto può essere un valore.
In
questi ultimi giorni si discute tanto di giovani, del posto fisso,
dell’articolo 18. Non credo più in un
contratto di lavoro a tempo indeterminato. Perché per me, per la mia
generazione non è più un contratto adeguato. Il mondo cambia e noi Italiani su
questo come su tante altre cose delle volte siamo antichi, e facciamo fatica ad
accettare cambiamenti dettati da una società in evoluzione. Credo che un mondo
così vario, sempre più globalizzato ed eterogeneo non sia ben rappresentato da
un contratto che ti lega così saldamente ad un datore di lavoro. È vero, le
banche per fare un mutuo, o per rilasciare una carta di credito (che ahimé io
per prima non riesco ad ottenere…) , chiedono la ‘garanzia’ di un contratto a
tempo indeterminato. Ma sono le banche che devono cambiare. È anche vero che i contratti a
progetto oggi sono una maledizione. L’ho vissuto sulla mia pelle. Credo che una
delle ragioni principali di tale maledizione sia il fatto che il 90% dei
contratti a progetto firmati in Italia non sono tali. Sono in realtà un metodo
usato dalle aziende per pagare meno tasse, ma il lavoratore viene trattato come
fosse assunto con contratto a tempo determinato o indeterminato. Nessuno ne
parla di questo. Si parla dell’articolo 18 e non dello sfruttamento e del
ricatto che migliaia di giovani e meno giovani subiscono sotto il peso di
contratti che non danno alcuna tutela e alcun vantaggio se non al datore che li
usa – senza alcun controllo – come arma impropria. Ed in un periodo in cui è
così difficile lavorare come si fa ad opporsi, come si fa a dir di no. Quanto
apprezzerei un governo che analizzasse o indagasse il rapporto tra le
condizioni contrattuali cartacee e quelle effettive, il rapporto tra il dire ed
il fare, tra una firma e la pratica del quotidiano. Secondo me da qua bisognerebbe
cominciare per riformare il mondo del lavoro.
Il
contratto a progetto se rispettato – in tutti i sensi, non solo dai datori di
lavoro ma anche dalle banche! – potrebbe diventare un punto di forza in un
mondo del lavoro dinamico. Permette di seguire un progetto senza
una determinazione di ore, permette di seguire anche più progetti, un po’ come
fare il libero professionista senza i costi di una partita IVA. E’ vero non ci
sono ferie, tredicesime, quattordicesime, ma se guardiamo i tagli, se guardiamo
quanto gli impiegati della pubblica amministrazione stanno perdendo con questa
crisi, crediamo davvero che un contratto a tempo possa essere tutela di
qualcosa? Io non lo credo più. Credo invece che dobbiamo cominciare ad
autodeterminarci e non ad essere determinati da contratti che sono solo forme
di ricatto. Certo, per rivalutare un contratto a progetto bisogna cambiare
tanto, nella società, nelle mentalità, di quest’Italia che delle volte fatico a
capire e a seguire, perché mi sembra vecchia, svogliata, stanca, ma con poca
voglia di cambiare e con tanta voglia – sembra – di tornare indietro. Io invece
di voglia di cambiare ne ho, preferisco guardare avanti alle incognite
piuttosto che cercare di tornare indietro…e forse anche questo, nonostante le
paure, mi ha dato la forza di dire basta a ciò che non mi stava più bene. Sono
stata fortunata. Ma è questo il momento storico migliore per decidere di
cambiare e rischiare….perché non si ha più veramente niente da perdere. Quando
si ha tanto da perdere è difficile rischiare, invece in questo momento persino
un contratto a tempo indeterminato potrebbe non valere più nulla da un giorno
all’altro. È ora che noi giovani, noi tutti, possiam decidere di non accettare,
di cambiare, di volere di più. È ora più facile fare scelte difficili. Almeno
su di me, un effetto di tutta questa condizione di precarietà in cui i media ci
proiettano, è quello di non farmi sentire più legami forti. Tutto cambia, tutto
sta cambiando e ogni scelta rischia di cadere un istante dopo averla fatta,
quindi l’unica cosa importante da fare ora è pensare al presente, non più al
futuro come volevano e facevano i nostri genitori. Il futuro visto da questo presente è troppo
incerto, allora perché croggiolarsi col terrore di un domani che non ci è dato
conoscere? Meglio usare le stesse
energie per far bene oggi.
Non
mi dilungo e proseguo.
Tra
i tanti cambiamenti degli ultimi mesi il lavoro mi ha portato a fare un
inaspettato viaggio in Turkmenistan che pensavo fosse un paese del Risiko ed
invece neanche sul gioco è segnato. Difficile trovare una guida, o un libro che
ne parli. Difficile parlarne. Anche su questo work in progress.
Infine tra cambio di lavoro, cambio di vita e nuovi viaggi, chiudo con un cambio
di casa dal quale ho definitivamente sviluppato la convinzione che
tutti nella vita dovrebbero fare dei traslochi. Cambiare casa è come andare
dallo psicologo. Immaginate di rinchiudere tutto ciò che avete in scatole di cartone. Mentre lo fate, ogni singolo oggetto, vi richiamerà alla mente qualche cosa.
Immaginate di dover selezionare ed inscatolare alcune delle cose della vostra
vita, vestiti, libri, pentole, coperte. In una casa nuova aprite poi gli
scatoloni e di nuovo quegli oggetti riemergono a diversa vita, magari con nuovi
pensieri, magari no, semplicemente diventano parte di un nuovo mondo che ancora
non sapete bene come sarà. Quante riflessioni che fa scaturire un trasloco…è un
chi siamo stati, chi siamo, chi saremo, tutto rinchiuso nell’arco di poco
tempo e tra le forme dei nostri oggetti quotidiani.
Qui concludo, anche perché ormai il
trasloco è storia recente del lungo viaggio di questo brevi ultimi mesi.
In
qualche posto mi son fermata di più, in qualche altro di meno, un po’ per caso
un po’ per un dettato delle mani, per ora è abbastanza.
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