mercoledì 29 febbraio 2012

TAV-NO TAV. (Non) E' questo il dilemma. Uno sfogo.


Al di là dei credi,  delle fedi, delle convinzioni, della volontà di ogni singolo o di ogni parte politica ci deve essere la decenza ed il cervello.
Faccio fatica ad esprimermi, soprattutto pensando ad una persona: Luca Abbà, finito in ospedale a lottare per la vita dopo esser caduto da un traliccio mentre lottava per i propri ideali. Faccio fatica a stare qua a scrivere mentre amici, o anche, semplicemente, persone come me, a quest’ora sono in mezzo ad una strada per difendere con i denti qualcosa in cui credono: il loro futuro in primis. Il nostro futuro.
Personalmente appoggiare la causa No Tav mi sembra indiscutibile, una cosa ovvia. Ma come si può di questi tempi, in Italia, in questa Italia, in questa Europa pensare ad una grande impresa quando non riusciamo neanche ad avere piccole prospettive sul futuro. Non solo, come si può distruggere una valle con una “grande opera” quando di “grandi opere” in questo paese ce ne sono ancora mille da finire, mille abbandonate, mille colluse con aziende mafiose. Ma che credibilità può avere un governo che prevede un investimento di 22 miliardi di euro su un’opera che crea tanti dubbi e perplessità, lo stesso governo che rifiuta una candidatura olimpica per molte meno perplessità e dubbi di quelli che può creare la Tav?!
Potrei continuare a scriverne mille di motivi per cui la Tav è un progetto fuffa, che non merita di esser portato avanti….ma quello che vorrei riuscire a dire va al di là delle singole posizioni che possono essere di ogni tipo.
Essere No Tav, per quel che passa – che è quasi sempre passato - nei media principali, sembra essere oppositori, anarchici, giovani dei centri sociali. Perché non si fan vedere le migliaia di persone di sinistra, di centro, di destra, cattolici, buddisti e protestanti, giovani, anziani, meno giovani, uomini e donne, persone di ogni tipo che stanno scendendo in piazza e nelle strade per difendere una valle, per evitare catastrofi ambientali, economiche, etiche: per difendere l’Italia da un'ennesima speculazione. Il movimento No Tav non è una fazione dei centri sociali o una fazione anarchica, è un movimento a base popolare al quale aderiscono persone comuni, sindaci, pensionati, giovani, genitori…persone che hanno speranze sul futuro e un ideale da difendere, lottando se è necessario. E se delle volte la lotta si è fatta, si sta facendo in queste ore, ben più ardua, ben più dura, è anche perché non c’è stato ascolto. Anche da parte dei media. Le azioni del movimento sono spesso state descritte come manifestazioni di violenza e
di ribellione di gruppi separati e/o di infiltrati, senza mai evidenziare quanto invece il movimento sia ben radicato nella popolazione “qualunque” della valle e del paese.
I No Tav siamo tutti noi, tutti quelli che credono in un mondo migliore, nella possibilità di lasciare ai nostri figli qualcosa di buono, nella possibilità di credere che esista ancora in questo mondo, in questo momento, il diritto dei cittadini qualsiasi di contraddire, di manifestare, di porre dei dubbi e di farsi ascoltare. O anche semplicemente il diritto dei cittadini ad abitare la propria terra. Nonché il diritto dei cittadini di essere parte pensante di un paese. Stiamo vivendo in un momento storico in cui ci stanno imponendo tutto, ricordo che abbiamo un governo eletto da nessuno. I No Tav credono ancora nella possibilità di non farsi imporre qualcosa e di farsi ascoltare. I No Tav sono io, e tutte quelle persone che credono nella possibilità di lottare per difendere questo qualcosa.
E allora quanta rabbia che mi viene quando leggo i titoli di alcuni giornali di stamattina, che danno del cretinetti ad un ragazzo che sta rischiando la vita per difendere i proprio ideali o ad un sito di facebook che lo deride o ad un sito internet che lancia ridicoli sondaggi. Non meritano neanche di essere nominati, sono nulla per me. Anzi feccia. Perché si può avere pareri discordanti, la si può pensare diversamente e non essere d’accordo, ma sulla vita delle persone non si specula, soprattutto quando le persone la vita la rischiano perché credono in qualcosa. E se esiste gente capace di riderci sopra – ripeto, al di là di ogni credo - è perché, ahimé, non sappiamo più cosa significa credere in qualcosa, non abbiamo più idea di che cosa voglia dire difendere le nostre idee, qualsiasi esse siano. Forse abbiamo perso ideali. In silenzio leggiamo, guardiamo la televisione, scorriamo i titoli sulle pagine on line….forse pensiamo qualcosa forse no, ma chi, chi è capace di rischiare la vita per ciò in cui si crede? Pensavo che gli eroi non esistessero più, ma forse mi sbagliavo, perché per me è eroe chi lotta, a costo della vita, per i propri ideali, contro l’opinione comune, contro qualcosa di gigante. Chi cerca, concretamente con le proprie azioni, piccole o grandi che siano, di cambiare il mondo. Chi si scontra contro le persone “importanti” e contro quelle “comuni”  che dal proprio divano guardano la vita rotolare, non si sa più bene dove.
Gutta Cavat Lapide: la goccia perfora la pietra. Crederci è un ideale, non crederci è una sconfitta. Ma se ce ne fossero tante di gocce il mondo non potrebbe che essere migliore.
Io spero che Luca Abbà sia una tempesta di gocce che possa perforare la dura testa della gente e far sì che la montagna della Val Susa non venga mai bucata.
Ma questo è solo il mio, di ideale.

venerdì 24 febbraio 2012

In tema, un piccolo riciclo: GENERAZIONE X _ I GIOVANI NEL 2011

Non è facile. Vivere in una società che certi giorni sembra rifiutarti, non considerarti, non volerti.
Disperatamente alla ricerca di un futuro che delle volte sembra non esserci concesso. In un presente del quale non si trova bene il senso. Forse è il passato il colpevole.
Noi giovani d’oggi siamo una generazione al confine tra il vecchio ed il nuovo, viviamo in questa condizione liminare tra una tradizione ormai non più vivibile, non più accettabile, né tanto meno ancora ricercabile ed una innovazione che stenta ad affermarsi, che non è ancora accettata. Un piede indietro, un piede in avanti con tante paure, preoccupazioni, pochi sogni, poca voglia di svegliarsi e realizzarli.

Dicono che non abbiamo valore. Che non siamo forti. Eppure siamo capaci di lavorare 14 ore al giorno, per giorni, per pochi euro. Siamo in molti capaci di lottare, anche l’uno contro l’altro, per salire di poco più sopra della media. Siamo molto forti ma non in grado di usare questa forza per unirci, per ribellarci ad una società che non ci dà futuro, per affrontare ma soprattutto per cambiare una società che non ci piace. Ci manca qualcosa evidentemente.
Forse non si può definire valore la capacità di resistere al dolore se manca la capacità di sapersi ribellare ad esso. Siamo quindi una generazione di inetti, resistenti inetti che persistono ad inseguire il destino, che persistono a leggere gli oroscopi sperando in un cambiamento che li riporti in vita. Ma senza la capacità di rischiare, di unirsi, di lottare per cambiare le cose, per primi.

Una generazione da mille euro al mese. Spesso una laurea in mano e mille euro sembrano tanti, anche con un contratto a progetto, quando le alternative sono disoccupazione o stage a vita. Poi ci si guarda attorno e si vede un mondo del lavoro in cui procede chi ha un amico giusto, chi ha le labbra giuste o i santi nel paradiso giusto. Chi non ha nulla deve avere fortuna, cosciente dei limiti, cosciente che non si può andare troppo oltre. Il paradiso può essere spartito tra pochi, ed i pochi nulla tenenti che ci arrivano lottano tra loro come cani per tenere il posto assicurato.

Siamo tutti di sinistra ma non sappiamo più cosa voglia dire. Pensare alla politica è diventato sport, una questione calcistica da risolversi con un tifo imbarazzante ed incerto. Essere preparati, colti ma senza il cervello per addestrare quella cultura, per riconoscere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Pensiamo tutti di essere diversi, lo pensiamo a volte ma non lo dimostriamo mai, non siamo capaci di dimostrare e di concretizzare ciò che diciamo, ciò in cui crediamo. Se crediamo. Non sappiamo dove stiamo andando e seguiamo la massa, senza affacciarci, senza sapere, né tanto meno curiosare.
Abbiamo degli ideali ma siamo pronti a rinunciarci quotidianamente, perchè è molto più facile vivere senza ideali, oppure con degli ideali che si è pronti ad abbandonare per i propri interessi. Perchè in una condizione precaria, con un futuro incerto è ai propri interessi che si guarda. Se poi in mezzo c’è spazio per gli altri allora se proprio si deve si fa anche un piccolo gesto.

Stiamo costruendo questo mondo nell’egoismo, nella stanchezza, nell’indifferenza. Persino gli ideali delle volte sono troppo pesanti per essere trasportati. Capita che facciamo figli, o che li sogniamo, ma che mondo gli stiamo lasciando, gli vogliamo lasciare?

Di ideali non si mangia. E si muore. Eppure non sembra esserci più nessuno disposto a morire per i propri ideali. Sarebbe un coglione, non più un eroe. Gli ideali sono carta straccia. I nuovi valori sono il denaro, il lavoro, perchè ce n’è poco e chi lo ottiene allora ha raggiunto qualcosa. Il fine giustifica i mezzi. Perchè ai mezzi non si guarda più. E raggiunto il fine ci si dimentica del percorso se i mezzi per raggiungerlo sono stati leciti. Raro ma accade.
Ci si dimentica di tutto facilmente. Non abbiamo memoria, non solo storica. Non abbiamo memoria di quanto è accaduto ieri. Vicino a noi.

È forse una selezione naturale.

Schiavi. Ecco cosa siamo. Schiavi della società, schiavi di noi stessi. Schiavi che si fanno la guerra tra loro, che si scannano per la ciotola di riso apparentemente più vantaggiosa. Oggi mangia qualcuno domani mangerà qualcun altro.

Una sintesi:
In un posto in cui lavoravo, una sera, in chiusura di giornata, passa un signore anonimo, dai capelli bianchi, spazzolati come un vecchio Albert Einstein.
Prende in mano una cartolina con su scritto “spiritualità”.
Mi dice: “ Spiritualità. Ma cosa parliamo di spiritualità quando non riusciamo neanche ad essere UMANI.”

giovedì 23 febbraio 2012

PRECARI AUTO-DETERMINATI . UNA POSTILLA

Nam et fas est et ab hoste doceri - Imparare è sempre lecito anche dal nemico (Ovidio - Metamorfosi)

Il mondo cambia e delle volte credo che non sia necessario combattere troppo a lungo, incaponirsi con battaglie che potrebbero essere perse già in partenza. Delle volte è più facile e vincente volgere il cambiamento a proprio favore piuttosto che combattere per tornare ad un prima che forse non si può più restaurare.

Precari. Lo sono stata sino a quando ho deciso di dare le dimissioni. Anzi, quando ho interrotto anticipatamente il contratto di collaborazione continuativa a progetto, più noto come co.co.pro. Ecco quello che ero.

Siamo il peggio della società. Per certi versi è vero. Perchè siamo lo scarto creato da un mondo del lavoro in crisi, da una classe dirigente fallita che non può che dar vita a scarti. Ma non siamo noi, individui precari, il peggio. Quel peggio è determinato della società stessa, sono le modalità ed i contratti, i ricatti con i quali siamo costretti a stare nel mondo del lavoro, che siamo costretti ad accettare per pagare un affitto, per sognare una carriera, per esistere. Un ricatto, ecco cosa è oggi il mondo del lavoro. Il peggio.

A partirei dagli “stage”: offrono alla società una massa di giovani, speranzosi di entrare nel mondo del lavoro, ancora inesperti, ma giovani e pieni di energie, novità e speranza. Una forza da non sottovalutare. Un ottimo inizio, il problema è che non si finisce più, almeno sino all’età massima, sino al termine ultimo. Un buon modo per accumulare esperienza in aziende altrimenti precluse, un ottimo modo per tali aziende di testare le persone ma anche di usufruire di una forza lavoro gratuita perennemente intercambiabile.

Superata la fase “stage”, il mondo del lavoro di oggi offre disoccupazione o contratti a progetto ovvero una marea di precari. Eccoci qua.

Premetto: il contratto a progetto in sé credo sia un’ottima opportunità. Prendo uno dei miei e copio alcuni punti:
- il Committente conferisce alla Collaboratrice, che accetta, l’incarico relativo alla realizzazione del progetto sopra descritto....
- la Collaboratrice svolgerà la propria attività in assoluta autonomia, al di fuori di ogni obbligo di orario e di presenza e senza alcun vincolo gerarchico e/o disciplinare da parte del Committente
- la Collaboratrice si impegna a prestare la collaborazione di cui sopra in via non esclusiva, ma non concorrenziale, a favore del Committente...

Così descritto, mi sembra un buon modo per dare la possibilità ai giovani, in un mondo del lavoro statico e saturo, di muoversi liberamente tra diversi “progetti”, di decidere per chi e per cosa lavorare in autonomia, senza dover aprire ad esempio una Partita Iva che comporta molti più vincoli. Questa la teoria.

La pratica, lo dico per esperienza personale ma non solo, è che spesso i progetti descritti nei contratti sono fasulli e soprattutto è implicitamente falso tutto il resto. Il contratto a progetto nella pratica è un modo, da parte del datore di lavoro, di risparmiare, si pagano meno tasse, contributi ridotti. Ad esempio non ci sono ferie, non essendoci monte ore di lavoro prestabilito, quindi, logicamente, che senso avrebbe avere le ferie? Ma nella pratica le ore ci sono eccome, i vincoli ci sono eccome, il progetto forse è l’unica cosa che spesso non è reale.

Nella pratica il contratto di collaborazione continuativa a progetto diventa un modo del datore di lavoro di risparmiare, di legarsi con modalità meno determinanti e decisamente più economiche ad un lavoratore. Implicitamente però il collaboratore in questione sa già da quando firma che quello che c’è scritto sul suo nuovo contratto è carta straccia. Gli accordi saranno altri e saranno verbali.

E allora forse, noi precari, siamo una massa di imbecilli che firmiamo contratti di cui sappiamo sin dall’inizio la falsità? In un mondo giusto sarebbe così.
Ma in un mondo in cui non si trova lavoro, in cui è già terribilmente difficile dopo gli studi, entrare in un’azienda, in cui è ormai impossibile sognare il posto fisso, le ferie, la maternità e tutti quei diritti per i quali sono state fatte lotte su lotte, in un mondo che sembra quasi rifiutarti, avere la possibilità di firmare qualsiasi cosa, falsità incluse, sembra già un privilegio. E per tale passa.

La disoccupazione e la crisi economica hanno ovviamente accentuato una condizione già grave di precarietà e di ricatto. Ma solo nel senso della paura.
Perchè alla fine dei conti è la paura che ci paralizza. Mi spiego.
Quando non fai altro che leggere, ascoltare, che non c’è lavoro, che i disoccupati crescono, che c’è la crisi...quando poi ti rivolgi agli amici, che come te passano da uno stage ad un contratto a progetto alla disoccupazione di qualche tempo...beh, in questo caso si realizza la premonizione per cui già solo firmare un contratto, qualsiasi esso sia, sembra una fortuna.

Oltre ad essere precari siamo quindi una manica di schiavi ricattabili. Ricattabili perchè abbiamo dei sogni, perchè speriamo in un mondo migliore, in un mondo meritocratico, in un futuro, nella possibilità di costruire qualcosa. Ecco ciò che alcuni definiscono “l’Italia peggiore”.
L’Italia peggiore è formata da gente che lavora senza diritti e senza tutela, pur di lavorare, da giovani che non possono aprire bocca per paura di perdere uno stipendio da mille euro al mese, da giovani che spesso immolano una vita intera al lavoro, dignità compresa, nella speranza di non perderlo. Da giovani e meno giovani, che non possono troppo spesso permettersi di denunciare l’illegalità e le ingiustizie perchè perderebbero un mantenimento mensile o semplicemente una possibilità di carriera.

In un paese ideale mi piacerebbe immaginare un controllo migliore sul mondo del lavoro. Un controllo statale che garantisca l’attuazione lecita dei contratti e non impliciti ricatti. Dirlo a parole forse è sin troppo semplice.

In questo mondo in cui l’idealità, in tutti i sensi, sta venendo meno, nel piccolo credo che una vana speranza possa essere nelle mani dei lavoratori.
La precarietà può essere rigirata a nostro favore, questo è ciò che intendo con auto-determinazione. Non abbiamo quasi nulla per le mani, e siamo paralizzati dalla paura. Ma senza paura non c’è coraggio, come diceva Henry Miller. E allora prendiamoci il coraggio, mettiamo da parte la paura e rischiamo. Ora o mai più, tra le mani non abbiamo nulla di valido, un contratto a progetto fasullo non è un’alternativa valida per guardare al futuro.

Vogliono una massa di precari? Bene, ma vendiamoci al miglior offerente. Auto-determinazione. Facciamo in modo da essere noi, senza inutili e rischiose denunce, a far valere la nostra precarietà, la nostra progettualità. Rigiriamo i ricatti a nostro favore. Non è semplice, e ci vuole coraggio, paura ammessa. Ma rendere i contratti di collaborazione effettivamente tali, produrrebbe una nuova forza lavoro, che si ricicla, che si rinnova che si vende al miglior offerente.

Se i datori di lavoro mirano al risparmio, noi lavoratori miriamo alla qualità. Vendiamoci, auto-determiniamoci. Sono molte sicurezze in meno, ma la società in cui viviamo non può più accettare le sicurezze del passato. Non si può più lottare per tornare ad un mondo del prima, tutto era troppo diverso. Ed allora crediamoci, plasmiamoci al nuovo mondo, accettiamone pure la negatività ma rendiamola positiva e riversiamola a nostro favore.

Se fossimo uniti non ci sarebbero problemi. Questo vale per tutto, per ogni lotta sulla faccia della terra. Ma l’unione parte dal singolo, dal singolo individuo che combatte contro i mulini a vento. Ma che pian piano fa della sua lotta un coinvolgimento, se pur lento ma necessario.

Capisco benissimo che spesso denunciare è difficile, troppo compromettente. Ma c’è una rischiosa ma più morbida alternativa, quella di vendersi, quella di auto-determinarsi. La paura non può più essere la nostra palla al piede, altrimenti veramente faremo parte di un’Italia peggiore. Io sono precaria, attualmente disoccupata, ma ho scelto, auto-determinandomi, di provare a rompere, di andare oltre la paura e rischiare. Non ho tutela, non ho, aimé, neanche la disoccupazione, ma ho fiducia. Che le cose possano cambiare, che ci deve pur essere qualcuno che non accetta, anche solo con un semplice gesto.

Gli ideali pare non portino da nessuna parte. Anche l’auto-determinazione è un ideale, così come decidere di cambiare il negativo e l’ostile in positivo, ma se smettiamo di essere idealisti, romperemo tutto quello che ci rimane di buono. Abbiamo delle energie e possiamo scegliere: se usarle per accettare la parte peggiore del mondo o se usarle per rendere il mondo migliore, anche solo un pezzettino.

lunedì 20 febbraio 2012

PAROLE NUOVE E VELOCI ovvero PER UNA SINTESI DEI MESI TRASCORSI E UN FUTURO ALLA RICERCA DI PRECARIETÁ AUTO-DETERMINATA


Passano mesi…passano un sacco di cose, sopra e sotto la pelle. Trascorrono i silenzi, anche se pieni di parole. Il mio silenzio è stato una semplice incapacità di trasporre, dalla mente alla pagina, i miei pensieri. Un po’ per pigrizia dettata dal freddo, un po’ per accumulo di fatti che si son delle volte incespicati l’un sull’altro. Perché tanti, perché forti, perché pieni. Mesi intensi quindi, dentro e fuori, talmente intensi che le miriadi di parole scaturite, sono in qualche modo rimaste bloccate ai limiti dei polpastrelli.
Pian piano ora, con una nuova veste grafica, un anno nuovo, una casa nuova, provo a tirar fuori quelle silenziose riflessioni incubate nel mio corpo in questi mesi senza post. Sarà una rapida – rispetto alla mole di cose da dire - carrellata di tutto. Ogni evento meriterebbe pagine e pagine di approfondimenti. In questa sede solo rapidi accenni.

L’anno passato, più o meno di questi tempi, ero assunta con contratto a progetto, presso un’associazione culturale legata al mondo del libro e dell’editoria. Un lavoro molto interessante, ma ahimè pieno di “difetti” che rendevano difficile la sveglia mattutina. Perché tra le cose a cui ambisco nella vita, che forse a trent’anni ci si aspetta di avere – ma questo è un altro discorso – c’è il desiderio di fare un lavoro che non solo piace ma che lasci la libertà di sentirsi felice, triste, annoiata, indaffarata, per qualcosa che sia anche altro dal lavoro stesso. Il che non significa fare un lavoro per il quale non si prova interesse, ma piuttosto plasmare il lavoro sulle proprie esigenze. 
Sappiamo tutti bene che non c’è, non esiste lavoro ideale, per ogni cosa bisogna forse scendere a qualche compromesso, soprattutto quando quella cosa ci fa portare a casa i soldi per pagare l’affitto e, se siam fortunati, anche per comprarci un vestito o per fare un vacanza. Ma io ho capito di avere dei limiti, di accettazione, di sopportazione o semplicemente, su una ipotetica bilancia di svantaggi e vantaggi ad un certo punto della mia vita lavorativa il bilancino stava scendendo radicalmente tutto da un lato, il lato negativo, nonostante un lavoro interessante, stimolante ed impegnativo, come piace a me. Ma com’è difficile sul lavoro, quando si sta male dover, anzi poter cambiare, scegliere di guardare oltre. Di questi tempi è quasi impossibile. C’è la crisi dicono, e chi te lo fa fare di rinunciare ad un fasullo contratto a progetto che però almeno per altri 6 mesi, in prospettiva, ti farà portare a casa 1000 euro. Altri 6 mesi di affitto, altri 6 mesi di spesa, magari ci scappa quel paio di scarpe che adocchio da un po’…. Ecco quello che mi dicevo. Nel frattempo il famoso bilancino continuava a scendere e a pesare, sull’umore, sulla serenità, perché non si può essere sereni se non soddisfatti e se legati a qualcosa da una necessità principalmente economica e da un pensiero di razionale sopravvivenza. Ma per farla breve, mi si prospetta davanti la possibilità di un viaggio in Palestina, un sogno di lunga data, per partecipare al quale, visti i tempi ed un contratto che non prevede ferie, avrei dovuto rinunciare al lavoro.
Ci ho pensato, eccome se ci ho pensato, ma la possibilità di realizzare un sogno e perdere 6 mesi di contratto a progetto che mi stava soffocando mi è sembrata un segno del destino per spezzare il bilancino e dire basta. Incoscienza tanta. Le voci della coscienza invece sono state quelle miriadi di persone che mi guardavano con le facce preoccupate e titubanti perché non sapevano più chi fossi, chi era quella persona che stava lasciando un posto di lavoro.
Io mi sono detta che in qualche modo ce l’avrei fatta. Punto e basta.
Il destino poi mi ha aiutata e ancora prima di partire ho avuto una nuova opportunità lavorativa, non un lavoro qualsiasi, ma un lavoro bello che mi ha aperto mille strade e possibilità. Mi ritengo in questo molto fortunata. Al di là della fortuna mi piace anche pensare che delle volte bisogna crederci, che è possibile farcela e cambiare, con la crisi, con il mondo che non gira affatto bene, si può, anzi ci si deve credere comunque. Un pò di incoscienza ogni tanto non guasta, quanto meno all'umore.
Andando avanti e licenziatami sono quindi partita per la Palestina. Mi piacerebbe soffermarmi su questo ma spero presto di far arrivare dei post in merito. Work in progress.
Comunque un viaggio di quelli che lasciano il segno. I segni.
Al mio rientro un lavoro a progetto, questa volta un progetto vero, mi apre un mondo nuovo ma soprattutto un nuovo modo di vedere la mia vita lavorativa: il contratto a progetto può essere un valore.
In questi ultimi giorni si discute tanto di giovani, del posto fisso, dell’articolo 18. Non credo più in un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Perché per me, per la mia generazione non è più un contratto adeguato. Il mondo cambia e noi Italiani su questo come su tante altre cose delle volte siamo antichi, e facciamo fatica ad accettare cambiamenti dettati da una società in evoluzione. Credo che un mondo così vario, sempre più globalizzato ed eterogeneo non sia ben rappresentato da un contratto che ti lega così saldamente ad un datore di lavoro. È vero, le banche per fare un mutuo, o per rilasciare una carta di credito (che ahimé io per prima non riesco ad ottenere…) , chiedono la ‘garanzia’ di un contratto a tempo indeterminato. Ma sono le banche che devono cambiare.  È anche vero che i contratti a progetto oggi sono una maledizione. L’ho vissuto sulla mia pelle. Credo che una delle ragioni principali di tale maledizione sia il fatto che il 90% dei contratti a progetto firmati in Italia non sono tali. Sono in realtà un metodo usato dalle aziende per pagare meno tasse, ma il lavoratore viene trattato come fosse assunto con contratto a tempo determinato o indeterminato. Nessuno ne parla di questo. Si parla dell’articolo 18 e non dello sfruttamento e del ricatto che migliaia di giovani e meno giovani subiscono sotto il peso di contratti che non danno alcuna tutela e alcun vantaggio se non al datore che li usa – senza alcun controllo – come arma impropria. Ed in un periodo in cui è così difficile lavorare come si fa ad opporsi, come si fa a dir di no. Quanto apprezzerei un governo che analizzasse o indagasse il rapporto tra le condizioni contrattuali cartacee e quelle effettive, il rapporto tra il dire ed il fare, tra una firma e la pratica del quotidiano. Secondo me da qua bisognerebbe cominciare per riformare il mondo del lavoro.
Il contratto a progetto se rispettato – in tutti i sensi, non solo dai datori di lavoro ma anche dalle banche! – potrebbe diventare un punto di forza in un mondo del lavoro dinamico. Permette di seguire un progetto senza una determinazione di ore, permette di seguire anche più progetti, un po’ come fare il libero professionista senza i costi di una partita IVA. E’ vero non ci sono ferie, tredicesime, quattordicesime, ma se guardiamo i tagli, se guardiamo quanto gli impiegati della pubblica amministrazione stanno perdendo con questa crisi, crediamo davvero che un contratto a tempo possa essere tutela di qualcosa? Io non lo credo più. Credo invece che dobbiamo cominciare ad autodeterminarci e non ad essere determinati da contratti che sono solo forme di ricatto. Certo, per rivalutare un contratto a progetto bisogna cambiare tanto, nella società, nelle mentalità, di quest’Italia che delle volte fatico a capire e a seguire, perché mi sembra vecchia, svogliata, stanca, ma con poca voglia di cambiare e con tanta voglia – sembra – di tornare indietro. Io invece di voglia di cambiare ne ho, preferisco guardare avanti alle incognite piuttosto che cercare di tornare indietro…e forse anche questo, nonostante le paure, mi ha dato la forza di dire basta a ciò che non mi stava più bene. Sono stata fortunata. Ma è questo il momento storico migliore per decidere di cambiare e rischiare….perché non si ha più veramente niente da perdere. Quando si ha tanto da perdere è difficile rischiare, invece in questo momento persino un contratto a tempo indeterminato potrebbe non valere più nulla da un giorno all’altro. È ora che noi giovani, noi tutti, possiam decidere di non accettare, di cambiare, di volere di più. È ora più facile fare scelte difficili. Almeno su di me, un effetto di tutta questa condizione di precarietà in cui i media ci proiettano, è quello di non farmi sentire più legami forti. Tutto cambia, tutto sta cambiando e ogni scelta rischia di cadere un istante dopo averla fatta, quindi l’unica cosa importante da fare ora è pensare al presente, non più al futuro come volevano e facevano i nostri genitori. Il futuro visto da questo presente è troppo incerto, allora perché croggiolarsi col terrore di un domani che non ci è dato conoscere?  Meglio usare le stesse energie per far bene oggi.
Non mi dilungo e proseguo.
Tra i tanti cambiamenti degli ultimi mesi il lavoro mi ha portato a fare un inaspettato viaggio in Turkmenistan che pensavo fosse un paese del Risiko ed invece neanche sul gioco è segnato. Difficile trovare una guida, o un libro che ne parli. Difficile parlarne. Anche su questo work in progress.
Infine tra cambio di lavoro, cambio di vita e nuovi viaggi, chiudo con un cambio di casa dal quale ho definitivamente sviluppato la convinzione che tutti nella vita dovrebbero fare dei traslochi. Cambiare casa è come andare dallo psicologo. Immaginate di rinchiudere tutto ciò che avete in scatole di cartone. Mentre lo fate, ogni singolo oggetto, vi richiamerà alla mente qualche cosa. Immaginate di dover selezionare ed inscatolare alcune delle cose della vostra vita, vestiti, libri, pentole, coperte. In una casa nuova aprite poi gli scatoloni e di nuovo quegli oggetti riemergono a diversa vita, magari con nuovi pensieri, magari no, semplicemente diventano parte di un nuovo mondo che ancora non sapete bene come sarà. Quante riflessioni che fa scaturire un trasloco…è un chi siamo stati, chi siamo, chi saremo, tutto rinchiuso nell’arco di poco tempo e tra le forme dei nostri oggetti quotidiani.  
Qui concludo, anche perché ormai il trasloco è storia recente del lungo viaggio di questo brevi ultimi mesi.
In qualche posto mi son fermata di più, in qualche altro di meno, un po’ per caso un po’ per un dettato delle mani, per ora è abbastanza.