martedì 20 aprile 2010

Tra informatizzazione e narrativizzazione: riflessione sulla condizione e sul cambiamento del sapere nella società contemporanea

“Si intravede la fine del giornalismo. Pubblicità, uffici stampa, le telefonate dei cittadini sempre in ascolto (o di fronte ad un video) prenderanno il posto dei quotidiani, insieme con le raffiche di sondaggi freschi, oscillanti, carichi di emozioni. Della fine dei telegiornali ci accorgeremo un pò meno perchè o diventano peggiori e allora ci riportano al passato delle veline (ma c’è sempre un che di nostalgico nei ritorni al passato, le mode favoriscono la cultura dei ‘ritorni’). O diventano ‘migliori’, e allora, come lentamente sta già accadendo, si aggiunge musica, ritmo, montaggio da cinema, uso elegante del materiale di repertorio. L’effetto di presidio del territorio è assicurato. Anche senza la notizia.” Furio Colombo

Le parole di Furio Colombo apparse sull’ultimo numero del settimanale ‘L’Europeo’ nel marzo 1995 fanno pensare al contenuto di un saggio di Jean-François Lyotard scritto nel 1979 (La condizione postmoderna - Ed. Feltrinelli), agli esordi dell’era tecnologica: un’analisi del cambiamento dello statuto del sapere nella cultura post-moderna, che deve la sua nuova conformazione all’incidenza delle trasformazioni tecnologiche sul sapere stesso e sul linguaggio attraverso cui esso viene ricercato e trasmesso.
Il nuovo tipo di conoscenza si traduce in una nuova concezione di informazione (nel senso lato del termine) che si basa soprattutto sul concetto di ‘quantità’ appartenente al linguaggio-macchina ed alla quale corrisponde in parallelo un cambiamento dei produttori (e dei suoi utenti) che diventano coloro che dispongono dei mezzi per tradurre il sapere nel suddetto linguaggio. Questo comporta una esteriorizzazione del sapere rispetto al sapiente: il sapere, la conoscenza, diventa merce, colui che la possiede un produttore. Tale concezione strumentale del sapere farà sì che esso venga prodotto principalmente per essere venduto e consumato, per essere valorizzato in un nuovo tipo di produzione: il sapere mercificato diventa indispensabile alla potenza produttiva, una posta in gioco nella competizione mondiale per il potere inteso come dominio dell’informazione.
In un simile scenario decade il privilegio degli Stati-Nazione in materia di produzione e diffusione delle conoscenze, cambiano i rapporti tra istanze economiche ed istanze statuali in quanto subentrano nuovi protagonisti: le imprese multinazionali, le quali determinano una parziale sottrazione del controllo degli Stati sulle decisioni di investimento. Tali imprese, detentrici dei mezzi di controllo dell’informazione e delle conoscenze, diventano indispensabili nei rapporti strategici commerciali, militari e politici del nuovo sistema mondiale in cui la questione di fondo è diventata ‘ disporre di informazioni ’.
A questa prospettiva Lyotard affianca anche il problema della legittimazione, strettamente connesso con il problema del sapere, come due aspetti della stessa domanda: chi decide cos’è il sapere e chi sa cosa conviene decidere? Nell’era dell’informatica la questione del sapere diventa più che mai la questione del governo. Il diritto di decidere ciò che è vero non è indipendente dal diritto di decidere ciò che è giusto, tali decisioni derivano entrambe da una stessa prospettiva, da una stessa ‘scelta’ determinata da una visione culturale (ad esempio quella occidentale).
Il saggio presenta una visione-evoluzione diacronica della questione del sapere, della divisione tra una realtà oggettiva, scientifica dei fatti ed una narrativa, retorica, caratterizzata da determinati giochi linguistici, affrontando anche il problema della legittimazione da diversi punti di vista. Sono qui però più interessata ad esporre le mie riflessioni, alle quali aggiungo un ultimo spunto. Il mutamento del sapere nella cultura post-moderna, al quale, come s’è visto, corrisponde un mutamento della classica funzione statale di regolazione e riproduzione, determina una perdita dei vecchi poli di attrazione sociale (Stati-Nazione, partiti, professioni, istituzioni, tradizioni storiche) che perdono il loro potere di centralizzazione e di aggregazione popolare. Ne scaturisce una crisi dell’individuo, una ‘ dissoluzione del sé ’, come la definisce Musil : ognuno è rinviato a sé ed ognuno sa che questo sé è ben poco, l’individuo atomo del sistema è coinvolto in una mutata rete relazionale, non ha più come riferimento i vecchi poli di aggregazione e le ‘identificazioni’ con i grandi nomi, con gli eroi della storia contemporanea, si fanno più difficili. Tali identificazioni tipiche del sapere narrativo legittimavano determinate istituzioni sociali, rappresentavano modelli di integrazione nelle istituzioni consolidate, definendo i criteri di competenza propri delle società. E’ questa la funzione tipica del mito, inserito nelle grandi narrazioni la cui forma per eccellenza è il racconto.
Questo sapere narrativo quindi è in fase di decomposizione nella cultura post-moderna e, aggiungerei, in quella contemporanea, in cui il sapere scientifico prende il primato, ponendo l’accento sui mezzi piuttosto che sui fini dell’azione. Il sapere narrativo che era al centro di un precedente tipo di legame sociale, sembra non trovare più posto, per lo meno non con le stesse modalità del passato: la grande narrazione ha perso credibilità. Sarebbe troppo lungo in questo saggio esplorare e riflettere sulle possibilità che questo accenno offre, ma possa esso bastare come inquadramento generale delle mie riflessioni.
Di fatto viviamo un’epoca in cui l’informazione è nettamente aumentata in termini di quantità nonché di mezzi per accedervi. L’informatica, l’uso delle macchine, ha permesso ad una fetta molto più larga della popolazione (ci limitiamo a parlare della civiltà occidentale) di accedere ad una fetta molto più larga di informazione. Il saggio di Lyotard può essere un buon punto di partenza per domandarsi quanto questo cambiamento, quanto l’era dell’accesso internazionale e telematico alla conoscenza abbia avuto e avrà effetti positivi sulla società. E’ una grande interrogazione che spesso affianca l’evoluzione umana in tutte le sue forme, la cui risposta potrebbe spaziare da un generico e banale ‘si stava meglio quando si stava peggio ’ ad un determinismo evolutivo che a priori considera l’innovazione come necessaria. Cercherò per gradi di delineare la mia riflessione a proposito.
Sicuramente l’evoluzione tecnologica ha portato una facilità nella comunicazione e nell’accesso alla conoscenza che non si può non riconoscere come positiva. Ma sino a che punto si sta spingendo questa informatizzazione della società e sino a che punto soprattutto la mercificazione del sapere sta togliendo spazio al sapere stesso? Lyotard pone un dubbio non indifferente a proposito. Il modo in cui disponiamo del sapere è cambiato a tal punto che apparentemente ci sembra di disporre di una quantità fin troppo eccessiva di informazione che spesso non possiamo né riusciamo a gestire. Parallelamente però sta cambiando anche la qualità di questa informazione. In primo luogo perchè l’accesso all’informazione è talmente ampliato che tutti possono accedere ad essa, mutarla, commentarla, crearla. Pensiamo ad esempio ad Internet. In secondo luogo perchè, come dice Lyotard, il nuovo potere è quello di controllare questa informazione (e non di accedervi) in termini di quantità ed in termini di mezzi.
Mi sembra quasi che si sia creato un doppio strato di uso dell’informazione. Uno strato superficiale in cui apparentemente l’informazione, grazie alle moderne tecnologie, è diventata gestibile da un numero decisamente maggiore di persone: un processo di allargamento e democratizzazione permetterebbe quindi ad una moltitudine fatta di singoli di accedere ad una massa indefinita di informazioni.
Ma sotto tale pelle c’è uno strato ben nascosto, quasi invisibile che è quello che effettivamente decide quali siano la massa di informazioni accessibili e che anzi le veicola, ai fini di ottenere una maggiore o minore performatività, ovvero una efficacia, un effetto produttivo che determina un accrescimento della potenza. Questa teoria, potrebbe facilmente sfociare in un complottismo che già ha cominciato ad essere posto come problema da diverse persone e gruppi. Ma non è qui che desidero portare la discussione.
Mi pare sia innegabile, anche alla luce del saggio da cui sono partita, constatare quanto il mutamento ormai potremmo dire ‘moderno’ della condizione del sapere, comporti una nuova gestione del potere che cerca, tramite l’informazione ed il controllo di essa, di gestire una società il cui sviluppo, la cui evoluzione, non passa più per una formazione ed una ‘ identificazione nelle grandi narrazioni ’. Il valore formativo delle conoscenze si è trasformato in un valore merceologico, i mezzi di controllo della conoscenza stessa sono entrati nei circuiti della moneta: è la ‘ informatizzazione della società ’ come la chiama Lyotard.
Quello che qui è andato delineandosi come un problema è in effetti tale, ed affrontato ormai da studiosi, scrittori, giornalisti, intellettuali di vario tipo che si incontrano o scontrano con una nuova condizione che non sempre appare come positiva. E’ un problema che è stato posto già da alcuni decenni, quando ancora la situazione attuale era solo immaginabile, e quella immaginazione sembra essere stata confermata. Mi riferisco per esempio alle parole di Furio Colombo con cui ho aperto questa riflessione, tratte da un articolo del 1995 "Chi insidia il giornalismo libero" in cui si spiega con rara semplicità come per la prima volta nella storia delle democrazie occidentali molti leader e molti poteri vogliano abolire la mediazione giornalistica e parlare direttamente al pubblico, attraverso uffici stampa, talk show e nuove tecnologie.
Nelle miriadi di speculazioni più o meno filosofiche a proposito, ricordo di aver sentito spesso dire, in riferimento anche alla crisi culturale che la nuova era dell’informazione sta delineando, che ‘ nella nostra società manca letteratura e poesia ’, frase che riporta a Lyotard. Un pensiero che può sembrare tanto banale contiene infatti una miriade di significati, che si riallacciano a quanto il filosofo francese dice circa la perdita delle grandi narrazioni, le quali definiscono e al tempo stesso legittimano una cultura. Il sapere narrativo si può dire interiorizzasse (piuttosto che esteriorizzare) il rapporto tra sapere stesso e società, tramite una formazione interiore, una cultura indotta che portava l’individuo a identificarsi e confrontarsi con qualcosa di grande (il mito), con una tradizione narrativa che mette in gioco i rapporti della comunità con se stessa e con il suo ambiente. Questo avveniva tramite la costruzione di archetipi intrinseci alle narrazioni e connessi con la cultura di riferimento. La narrazione era, ma a suo modo può esserlo ancora, una struttura simbolica che conferisce di valenze emozionali il pensiero di un individuo e del popolo cui appartiene circa un evento. La perdita di questa capacità immaginativa sembra essere una delle cause della crisi culturale e sociale della società contemporanea.
Anche se non si può dire che questa facoltà sia andata persa del tutto.
Hayden White infatti suggerisce come il ‘mito’ oggi possa essere d’aiuto negli sforzi indirizzati alla ‘costruzione sociale’ in cui viene rimodellato un intero a partire dagli elementi restanti di una struttura sociale precedente. In particolare vorrei porre l’accento sulla teoria secondo cui il mito affronta situazioni particolari, ad esempio di disastro sociale, narrativizzandole. Potrebbe essere questo inteso come un ritorno alla narrazione nella società contemporanea, ritorno che, a ben vedere, non è detto che sia del tutto positivo.
Secondo White, il mito struttura l’intreccio delle storie che riguardano specifiche azioni o gruppi di eventi come se manifestassero le conseguenze di una violazione o di una osservanza a determinate regole. In tal modo attribuisce alle situazioni sociali un contenuto che si rifà a delle strutture simbolicamente significative per un determinato gruppo di persone o per una data società.
Egli mostra come questo approccio mitologizzante venga in realtà manipolato da custodi, i quali, elaborando versioni mitiche della natura del disastro, decidono come indirizzarne i contenuti, i significati e la diffusione delle informazioni. Sembra così che nella società contemporanea un accenno di narrativizzazione è comunque gestito in direzione di determinati effetti (la performatività di cui si parlava sopra). Il sapere narrativo starebbe quindi cambiando statuto, non tanto, o non solo, in rapporto all’informatizzazione della società, quanto in rapporto al dominio che si ha di questa nuova informazione. Ma non è forse sempre stato così?
Mi aggancio, un pò forzatamente forse, ad un saggio dello storico Carlo Ginzburg (in "Il filo e le tracce" ed. Feltrinelli) in cui nel tentativo di delineare l’uso di descrizione e citazione nell’opera storica e di fondarne l’eventuale veridicità della narrazione egli cita il pensiero dello storico e letterato Agostino Mascardi il quale nel 1636 nel trattato Dell’arte historica afferma che la storia è sempre storia politica, in cui spesso le manovre dei sovrani non lasciano tracce nei carteggi o lasciano tracce distorte e ingannevoli, ponendo particolare attenzione al linguaggio usato per fare ciò, che spesso determina un disinteresse per le fonti.
Anche Hegel (Lezioni sulla filosofia della storia) si pronuncia circa la narrazione di eventi reali. Secondo il filosofo tedesco, tale tipo di narrazione presuppone l’esistenza di un soggetto che fornisce l’impulso a registrare le sue attività e, conseguentemente, di un sistema legale contro cui o a favore del quale militano gli attori propri di una narrazione. La forma narrativa ha quindi a che fare con argomenti quali la legge, la legalità, la legittimità o più in generale l’autorità. La storia e la narrazione implicano un’attenzione verso il sistema sociale che crea la possibilità di cogliere il tipo di tensioni, conflitti, scontri e i diversi modi di risoluzione che siamo abituati a trovare in ogni rappresentazione della realtà che ci si presenta come storia . La crescita e lo sviluppo della coscienza storica, che va di pari passo con lo sviluppo della capacità narrativa, hanno qualcosa a che fare quindi con l’efficacia del sistema nell’influire sui pensieri e sui comportamenti. Seguendo il pensiero di Hegel si potrebbe supporre che ad essere cambiato nella condizione del sapere oggi, più che la metodologia sia il tipo di sistema, una nuova autorità che scaturisce dalla necessità di controllare, come dice Lyotard, il nuovo tipo di informazione.
Ritorno ad Hayden White e a quanto egli dice circa la manipolazione dell’informazione, ponendo l’accento sull’approccio mitologizzante nel processo di interpretazione degli eventi che mi aveva fatto parlare di una presenza mutata del discorso narrativo nella società attuale.
White esamina un caso molto interessante di tematizzazione e successiva riduzione di un disastro naturale (l’alluvione e la conseguente valanga che travolsero la città di Sarno, in Campania, il 5 maggio 1998) in cui le relazioni tra mito, memoria e ricostruzione di società vengono osservate attraverso il trattamento delle informazioni da parte di un quotidiano. Nell’era della gestione mediatica dell’informazione un evento risulta essere conteso da generi differenti di discorso, ognuno dei quali ha un interesse diverso nell’elaborare un intreccio in una specifica modalità. I vari discorsi in gioco però rischiano di produrre un evento senza ‘sostanza’, l’evento viene, in altre parole ‘spettacolarizzato’ cioè ridotto ad una questione di nessuna importanza. La sovradeterminazione dell’evento - risultato di essere stato soggetto a così tante e varie versioni della sua reale importanza - lo sublima in uno spettacolo che può essere dimenticato una volta terminata la sua rappresentazione. Rimando alla lettura del testo integrale di White per approfondimenti maggiori ma sembra un buono spunto in quella generale e ormai evidente teoria sul cambiamento dello statuto del sapere nella società del XXI secolo.
Il sapere è cambiato, e sono cambiati i mezzi di gestire tale sapere. Siamo di fronte ad una informatizzazione della società che sembra sia nata da premesse di miglioramenti e di allargamento delle conoscenze. Ma vengono molti dubbi a vedere quanto il nuovo tipo di informazione sia in realtà molto più manipolabile che in passato e quella forma narrativa che, quasi negativamente, sembrava andata persa con il nuovo sapere, sta forse ritornando, ma con un nuovo approccio mitologizzante, un approccio che, oltre alla creazione di nuovi, oserei dire ‘falsi’ miti, strumentalizza essi, ed il sapere stesso, verso determinati fini. Al di là della tradizionale separazione tra un sapere scientifico oggettivo ed un sapere retorico narrativo, il sapere, visto come un unicum di informazione, sembra aver perso il controllo, o forse siamo proprio noi individui che, nell’illusione di vivere in un’era di maggiore partecipazione alla società, abbiamo in realtà perso la capacità di stabilire la qualità di questa partecipazione. Sembra quasi esserci un tipo di controllo, un tipo di autorità, che cammina su di un doppio binario: un controllo effettuato da ogni singola persona che ha ormai la possibilità, se pur parziale, di accedere all’informazione, ed un controllo più velato determinato da chi gestisce effettivamente l’informazione. I sovrani di cui parla Agostino Mascardi, il soggetto cui si riferisce Hegel sembrano essere concetti più che mai attuali ma hanno probabilmente solo cambiato aspetto nell’era dell’informatizzazione della società e della mercificazione del sapere: è forse questa la forma moderna assunta dal ‘Grande Fratello’ di cui parlava Orwell?

domenica 17 gennaio 2010

Voltaire aveva visto lungo

Da "Lettres Philosophiques":
Entrate nella borsa di Londra, in questo luogo più ripsettabile di molte corti; vi vedete riuniti i deputati di tutte le nazioni per l'utilità degli uomini. Qui il giudeo, il maomettano e il cristiano discutono insieme come se fossero della stessa religione, e non dànno dell'infedele se non a chi fa bancarotta; qui il presbiteriano confida nell'anabattista, e l'anglicano accoglie la promessa del quacchero. Uscendo da queste riunioni pacifiche e libere, gli uni vanno alla sinagoga, gli altri a bere; questo va a farsi battezzare in una grande tinozza nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; l'altro fa tagliare il prepuzio di suo figlio e fa borbottare sul bimbo delle parole ebraiche che non intende affatto; questi altri vanno nella loro chiesa ad attendere l'ispirazione divina col cappello sulla testa, e tutti sono contenti.